Città di Vicenza

19/02/2024

"Pop/Beat- Italia 1960-1979. Liberi di sognare", dal 2 marzo in Basilica Palladiana

Al via le prenotazioni dei biglietti di ingresso. È online il sito mostrapopbeat.it

L’attesa per l’apertura della grande mostra "Pop/Beat- Italia 1960-1979. Liberi di sognare" sta per terminare e da oggi, lunedì 19 febbraio, sono aperte le prenotazioni dei biglietti di ingresso. Inoltre è online il sito mostrapopbeat.it

Un grande progetto di pittura, scultura, video e letteratura, inedito per l’Italia, che l’artista Roberto Floreani ha ideato e curato per il Comune di Vicenza e Silvana Editoriale – che ne hanno assunto la coproduzione – per i prestigiosi spazi della Basilica Palladiana. Per la prima volta vengono raccontate ed esposte insieme le generazioni Pop e Beat italiane.

Oggi l'assessore alla cultura, al turismo e all'attrattività della città Ilaria Fantin e il curatore Roberto Floreani hanno presentato alcuni approfondimenti sulla mostra.

«Pop/Beat riempirà di colore e luce il grande salone della Basilica palladiana e saprà coinvolgere tutta la città - ha commentato l'assessore alla cultura, al turismo e all'attrattività della città Ilaria Fantin- . Del resto lo sta già facendo, vista la grande partecipazione da parte delle associazioni culturali che hanno manifestato fin da subito un grande interesse per il tema trattato tanto che ci stiamo impegnando proprio per organizzare le varie proposte che animeranno non solo l'interno della Basilica ma anche l'esterno. Negli anni 1960-1979, quelli approfonditi dalla mostra, la produzione culturale era in mano ai giovani ed è in particolare a loro che vogliamo rivolgerci».

«Una mostra viva, comprensibile, popolare, che riporti nella collettività la leggerezza e la propositività sociale di quegli anni, attualizzando quella "Libertà di sognare" che oggi può rivelarsi salvifica dopo le costrizioni del lockdown. Un progetto sul "sentire comune" di artisti, letterati, musicisti di un ventennio cruciale del nostro Paese, superando le barriere strettamente storiografiche, le rispettive rivendicazioni tematiche individuali, le stesse classificazioni Pop e Beat in gran parte nemmeno condivise dagli stessi artisti che han finito col farne parte» -ha dichiarato il curatore Roberto Floreani.

Il progetto Pop propone 100 opere di 35 artisti provenienti da Collezione Intesa Sanpaolo, Gió Marconi, Mart, Museo Novecento di Firenze, MAMbo, dagli archivi di molti degli artisti in mostra nonché da alcune delle collezioni private più importanti d’Italia. Tra le numerose opere che saranno presenti in mostra, a illustrare il percorso espositivo, ricordiamo: Enrico Baj, Coppia, 1963; Renato Mambor, La pistola giocattolo, 1965; Umberto Bignardi, Senza titolo, 1965; Gino Marotta, Natura modulare, 1966 e sempre di Marotta Giraffa artificiale, 1972; Piero Gilardi, Mais, 1966; Mario Schifano, Futurismo Rivisitato, 1967; Fabio Mauri, Cinema a luce solida, 1968; Bruno Di Bello, Ritratto di Paul Klee, 1968; Umberto Mariani, La contestazione mondana, 1968;

La temperatura Beat in mostra sarà garantita dalla musica di quegli anni diffusa in loop e rappresentata dai rari documenti originali di Gianni Milano, mentore di un’intera generazione, Aldo Piromalli, Andrea d’Anna, Gianni De Martino, Pietro Tartamella, Eros Alesi, Vincenzo Parrella e molti altri, nonché della vicenda artistica militante dell’Antigruppo siciliano guidato dalla figura carismatica di Nat Scammacca.

Il progetto di Floreani ricontestualizzerà la stessa natura della pop e della beat italiane, dando priorità a ciò che gli artisti stessi dichiaravano circa la loro ricerca, spesso non sentendosi affatto etichettabili come pop, per l’originalità del loro punto di vista rispetto agli americani, nonché percorrendo un tragitto che dalla Libertà di sognare approderà fatalmente alla Fine del sogno degli anni di piombo, della disillusione e della diffusione delle droghe pesanti, messe in scena in tutta la loro crudezza al Festival di Castelporziano nel 1979.

Pop/Beat - Italia 1960-1979
Liberi di sognare

Vicenza, Basilica Palladiana
2 marzo - 30 giugno 2024
A cura di Roberto Floreani

Mostra prodotta da
Comune di Vicenza
Silvana Editoriale

Catalogo
Silvana Editoriale
A cura di Roberto Floreani
Testi di Roberto Floreani, Gaspare Luigi Marcone, Alessandro Manca

Orari
Da martedì a domenica 10.00 -18.00 (ultimo ingresso 17.30)
Lunedì chiuso

Biglietti
Open: € 16,00 (acquistabile solo online, valido dal giorno dopo l'acquisto)
Intero: € 13,00
Ridotto: € 11,00
Ridotto bambini (dai 6 ai 14 anni, accompagnati da uno o due adulti): € 5,00
Ridotto scuole (di ogni ordine e grado): € 5,00

Omaggio: minori di 6 anni, giornalisti accreditati, guide turistiche abilitate con tesserino di riconoscimento, persone con disabilità e 1 accompagnatore per chi presenti necessità, 1 accompagnatore per gruppo, 2 accompagnatori per ogni gruppo scolastico, tessera ICOM in corso di validità

Per prenotazioni: tel. 0444 1970029

Per informazioni:

mostrapopbeat.it

 

APPROFONDIMENTO:

IL PROGETTO POP

A partire dai primissimi anni ’60, attraversano la stagione comune del boom economico, vivendo un benessere fino ad allora inimmaginabile, corroborata anche da un retroterra psicologico propositivo, dinamico, elettrizzante: L’arte Pop me la ricordo allegra, dirà Plinio De Martiis, gallerista che sarà l’autentico mentore degli artisti pop italiani. L’anno scelto per l’inizio del progetto è il 1960, quello de La dolce vita di Fellini, dove perfino la trama anche tragica del film verrà fagocitata dal fascino di Marcello Mastroianni e Anita Eckberg, dalla fontana di Trevi illuminata e dal traffico impazzito e paparazzato di via Veneto e via Condotti. Liberi di sognare, quindi. Il piano Marshall di ricostruzione del Paese conferirà ad un’economia annientata dalla guerra nuove opportunità, nuovi modelli ed è naturale che l’America, ancora presente militarmente in Italia, diventasse un punto di riferimento, proponendo il suo modello di società apparentemente opulenta, dove la comunicazione, la società dei consumi e la stessa struttura sociale apparivano distantissime da quella ancora arretrata dell’Italia. Quindi anche gli artisti italiani guarderanno all’America, ma come occasione di arricchimento culturale e non come modello, preferendo riferirsi poi alle peculiarità nazionali: una missione comune, interrogandosi autonomamente sulle modalità di costruzione dell’immagine, che rimarrà centrale pur declinata in soluzioni anche molto differenti tra loro, privilegiando di volta in volta tematiche legate all’avanguardia futurista, alla tradizione storica e al paesaggio, all’oggetto, alla comunicazione, al consumo, fino all’identificazione ideologica che condurrà rapidamente verso la stagione unica del Sessantotto. Un sentire comune di quegli artisti che costituiranno la Scuola di Piazza del Popolo a Roma, la Scuola di Pistoia in Toscana, il folto gruppo eterogeneo milanese e quello libertario ed anarchico torinese, tutti orientati primariamente ad una liberazione dal peso sordo dell’Informale ormai autoreferenziale e privo di spinta, nonché retaggio di un dopoguerra affamato di cui le nuove generazioni vorranno liberarsi rapidamente. Occhieggeranno quindi a quella temperatura comune che gli stessi americani delineano solo dopo il 1962, definendosi ancora The New Realists nella seminale mostra alla galleria Sidney Janis di New York inaugurata il 31 ottobre di quell’anno, con un’importante presenza di artisti italiani (Baj, Baruchello, Festa, Rotella, Schifano, tutti presenti in questo progetto), con ogni evidenza ancora considerati paritari e ugualmente rappresentativi di quelli americani rispetto alle novità sociali ed economiche del tempo. Lo stesso Roy Lichtenstein, star della Pop Art, dichiarerà, solo un anno dopo: Tutti hanno battezzato la Pop Art “americana” ma in verità è pittura industriale.

Significativo il rifiuto consapevole di Mario Schifano che disattenderà un dorato contratto con la potentissima Ileana Sonnabend, rinunciando così ad una formidabile “carriera americana”, pur di non veder limitata la propria esplosività creativa: Per loro dovevo continuare a fare monocromi e particolari di coca-cole. Rifiuto che riguarderà anche Piero Gilardi e Gianfranco Baruchello per motivi analoghi, a dimostrazione di come l’America non fosse (ancora) considerata l’Eldorado irrinunciabile per gli artisti italiani.

Il 1962 sarà un anno importante anche per la costituenda Pop italiana, fino ad allora citata come Arte Oggettiva o Figurazione Novissima. Perfettamente al passo con i tempi sarà il testo Verso un realismo di massa, pubblicato nel 1963 dal poeta-critico Cesare Vivaldi: La pubblicità, la televisione, la segnaletica, il fumetto puntano sempre più su effetti shock ottenuti dalla violenta imposizione di un’immagine staccata, di un particolare isolato dal normale contesto relazionale, carico di valore simbolico; pur mantenendo la propria identità nazionale rispetto ad una mentalità “reportagistica” che si diffonderà tanto in America come in Europa, come la definirà il critico Maurizio Calvesi: Ma assumere il linguaggio reportagistico della Pop Art non vuol dire assumere un modo di vita americano.

Pop Art che prenderà identità e credibilità in America con il gran tour nei musei di New York, Los Angeles, Washington, Kansas City, Houston e Pasadena tra il ’62 e il ’63, prima traccia tangibile di quel che l’Europa intravede come l’iterazione di quell’egemonia culturale americana, già sperimentata con la precedente affermazione dell’Espressionismo Astratto in tempi di Guerra Fredda, foraggiato generosamente dal Governo americano in contrapposizione con l’arte del Socialismo reale dell’URSS. Dopo la contrapposizione forzata sull’astratto, efficace contro la figurazione sovietica ma di scarsa adesione nazionale, l’America finalmente può affermare con la Pop Art la propria identità, cioè quella realtà social-popolare figlia di una tradizione recente, epidermica e dominata dal prodotto, dalla pubblicità, dal fumetto e dai divi di Hollywood. Non casualmente i principali artisti pop d’oltreoceano, primo fra tutti Andy Warhol, proverranno infatti da esperienze come illustratori, designer pubblicitari o vetrinisti. L’affermazione definitiva della Pop Art americana, quella artistico-culturale, ci sarà poi a livello egemonico dal 1964 e proprio grazie alla Biennale di Venezia, dove Robert Rauschenberg, sarà premiato con il Leone d’Oro. Paradossalmente, rispetto a quanto sostenuto dalla critica per troppi anni, il sentire comune nazionale rispetto alle tematiche di una nuova stagione di sviluppo economico e sociale, avverrà proprio in Italia negli anni tra la fine degli anni ’50 e inizi anni ’60, in assoluta autonomia dalla Pop Art americana, intriso di un originale retroterra storico legato all’esperienza futurista, nonché arricchito da una forte e articolata valenza sperimentale e sociale, che diverrà poi anche ideologica tra il ’67 e il ’69. Appare evidente di come la critica nostrana si sia impantanata tra il ‘62-‘63 fossilizzandosi in definizioni, come new-Dada ad esempio, nei confronti di ricerche che in realtà si riveleranno poi come antesignane di quella temperatura pop che diverrà dominante da lì a pochi anni, malintendendo anticipazioni rivelatorie come quelle di Bertini, Maselli, Baj, Rotella, o dello stesso Mauri. Pur senza scomodare il Primo Carnera di Balla, ancora impronunciabile per la sua adesione al Futurismo. Esemplificativa in questo senso la mostra Nuove prospettive della pittura italiana organizzata a Bologna nel 1962, dove la quasi totalità della critica italiana parteciperà ad un catalogo dove non apparirà nessuna intuizione in questa direzione, ma diverrà imperdonabile alla Biennale di Venezia del ’64, dove la Pop Art di Rauschenberg (e Jasper Johns, Jim Dine e Claes Oldenburg) verrà accolta come del tutto innovativa, ignorando le formidabili personali ugualmente presenti di Angeli, Baj, Del Pezzo, Festa, Schifano e Rotella: ovvero il leone d’Oro assegnato a un new-Dada americano nella Biennale della Pop italiana. Ancor oggi, on line viene riportato dalla Cineteca nazionale di Rai Cultura/Biennale 1964: La rivoluzione della Pop Art contagiò l’arte italiana, ricordando tutti gli artisti americani esposti, senza riportare nemmeno un solo nome degli artisti italiani. Se nel ’64 alla Biennale di Venezia fosse stato premiato (ex aequo?), o almeno segnalato un artista italiano, tra i molti meritevoli e presenti, anziché celebrare il solo Rauschenberg, avremmo assistito sicuramente alla stessa affermazione mercantile mondiale della Pop Art americana, che già aveva fagocitato quella inglese, ma con ben altro risalto della ricerca italiana di quegli anni e con meno sudditanza critico-mediatica. Un’enorme, irripetibile, colpevole occasione storica perduta. E non sara l’unica, purtroppo.

Il ’67 è da molti versanti indicato come la fine della Pop “scanzonata” figlia del boom economico, ma forse la situazione merita un approfondimento diverso. E’ cosa nota, anche se da troppo tempo sussurrata, che Germano Celant decide per la titolazione Arte Povera (mutuandola dal Teatro Povero di Jerzy Grotowski del ’62-’65), dopo esser stato tentato da Neo-Futurismo e, indubbiamente, se si scorrono gli artisti invitati all’evento considerato fondativo, il motivo sicuramente c’era. Quanto alla titolazione Arte Povera. Appunti per una guerriglia, più di convenienza politica che di sostanza artistica, come confermeranno anche alcuni dei poveristi stessi, una prima, reale valutazione movimentista alla prova del Sessantotto riguarderà sicuramente più i pop De Filippi, Baratella, Spadari, Festa e Gilardi (inspiegabilmente escluso da Celant…) che gran parte dei poveristi, dove oggettivamente l’inclusione di Pino Pascali appare del tutto forzata e infatti presente in questo progetto, così come non ne fanno parte Kounellis e Pistoletto, pur molte volte inclusi nelle esposizioni dedicate alla Pop, aderendo alle loro stesse dichiarazioni (Non ero un artista Pop perché non ho mai usato immagini popolari e perché le loro carriere, esclusa una brevissima parte iniziale, rispondono orgogliosamente alle istanze dell’Arte Povera e non a quelle della Pop. Sarebbe come inserire Schifano in un progetto sull’Informale, per le poche opere realizzate alla fine degli anni ’50. La stessa mostra fondativa alla galleria La Bertesca a Genova, sempre nel ’67, Arte Povera. Im-Spazio, includerà tra i 12 artisti, anche Pascali, Ceroli, Bignardi, Mambor e Tacchi, da decenni unanimemente assimilati alla tendenza pop. Se qualcuno se ne fosse accorto allora, con l’Arte Povera anche un Neo-Futurismo avrebbe avuto sicuramente ragione di esistere, emancipandoci in primis, anche sematicamente, dalla Pop Art americana e in secundis tesaurizzate le dichiarazioni sulla scaturigine futurista della loro ricerca di buona parte degli artisti presenti in questo progetto. Tesi riportata anche dal critico Alan Jones, amico personale di Leo Castelli, gallerista e mentore della Pop Art: L’energia dell’arte italiana non aveva paragone in nessun altro paese d’Europa […] Peccato che non si poteva chiamarlo, all’epoca, Neo-Futurismo, un tabù che esigeva l’uso del termine neo-Dada […] Marinetti avrebbe capito subito la convergenza dell’arte, design, moda, musica e nuovi mezzi tecnologici. Marinetti al light-show al Piper.

Ma il Futurismo era (ancora) impronunciabile, quindi si è preferito colpevolmente lasciare la straordinaria generazione pop italiana in un limbo in cui pressoché nessuno di loro si riconosceva, pur citando con chiarezza da dove una parte significativa della loro ricerca provenisse.

 

APPROFONDIMENTO:

GENERAZIONE BEAT/ANTIGRUPPO

Ci sono alcune dichiarazioni che rendono meglio di ogni altra cosa la temperatura di quegli anni: Mi fate tenerezza, siete i nostri nipotini, ma il Beat è morto, che Allen Ginsberg, il vate della Beat generation disse a Gianni Milano, pari grado in Italia, nonchè: Perché siamo capelloni beat, randagi agnelli angeli fottuti, scritta da Gianni De Martino, altro protagonista di quella stagione.

L’Italia viene scossa dall’uscita nel ’64 dal libro Poesia degli ultimi americani, curato da Fernanda Pivano, che sposta l’ottica dei giovani da Pavese, Baudelaire, Fenoglio, Svevo, verso Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso, permeati da un’idea di ribellione e di autonomia totale verso il passato.

La sezione dedicata alla Beat italiana affiancata alla Pop è imprescindibile per descrivere quel sentire comune di artisti e letterati di quel periodo, affidata in questo progetto al racconto di Alessandro Manca, che si è focalizzato nel far emergere materiali letterari risalenti ad una storia trascurata e seppellita nei decenni: quella della galassia letteraria underground e ‘beat’ degli anni Sessanta italiani. A quell’epoca poesie e libretti autoprodotti furono caratterizzati da «circolazione per simbiosi», legati indissolubilmente a esperienze vissute, a un’immagine di marginalità, coraggio e apertura. Fu un tentativo di sopravvivenza e riappropriazione dell’azione, attraverso l’esercizio coraggioso e consapevole della libertà.

È la storia e la letteratura di giovani autori che, nella maggior parte dei casi, entrarono in contatto con il proprio abisso, diedero fiducia agli incontri, ruppero il circolo chiuso in cui erano inseriti. Quelli furono anni di simbiosi, allargamento delle superfici di contatto, influsso reciproco e vicendevole influenza, insegnamento che coincise in un comune orizzonte, senza mai darsi un vero programma comune. Caratteristica però del ‘movimento’ fu una decisa presa di distanza rispetto al contesto storico e alla visione del mondo dell’epoca e della cultura. Questi autori vi si contrapposero abbracciando un rinnovato bisogno di poesia e un ritorno per la ‘strada’, scelta come simbolo e metafora di una nuova qualità di soggettività ed espressione.

Alcuni protagonisti furono il poeta e maestro elementare Gianni Milano da Torino e i poeti collegati alla casa editrice Pitecantropus, Andrea D’Anna, romanziere e traduttore da Milano come Silla Ferradini, autore de I fiori chiari. Il romanzo della beat generation a Milano dal ’66 al ’69 e Aldo Piromalli, esule ad Amsterdam.

Per quanto riguarda invece l’Antigruppo di Nat Scammacca, proposto dal curatore Roberto Floreani, l’estensione territoriale del movimento Beat nell’estremo sud grazie all’attività dell’Antigruppo siciliano di Nat Scammacca conferisce un’identità nazionale al Movimento Beat fino ad oggi misconosciuta. L’Antigruppo sarà una realtà collettivista che si doterà fin dagli esordi di un corposo Manifesto fondativo in 21 punti, palesando uno spessore teorico pressochè sconosciuto al nord e colpevolmente mai incluso compiutamente nel racconto di quegli anni, opponendosi al monopolio del Gruppo ’63 di Umberto Eco, Pagliarani, Sanguineti, egemonico e distante dalla realtà di quella base che avrebbe dovuto invece rappresentare: La loro verità è bugia, quindi. Il documento successivo: Antigruppo 1971. Esistenza, integra il primo con l’estensione della posizione ideologica del gruppo, riportando l’azione poetica al centro con i tre testi seminali: Esistenza Antigruppo, Capogruppo d’Avanguardia e Anno Uno, dove emerge con forza il tenore sociale di ribellione, che si conclude con un significativo: Guai a chi vuol essere padrone! Attività che sarà corroborata dall’uscita lo stesso anno anche della rivista Anti, indispensabile per alimentare il dibattito. Quella dell’Antigruppo sarà una feroce contestazione marxista alla sinistra imborghesita e un’opposizione assoluta al fascismo, ma con evidenti riminiscenze verbali e strutturali riconducibili alla comunicazione dei gruppi futuristi, pur molto attenti all’emancipazione delle estreme periferie nazionali. Rifiuterà orgogliosamente qualsiasi contatto con il nord, evitando quella diaspora verso Torino e Milano di molti meridionali nel loro viaggio della speranza, sostenendo con forza che il ruolo sociale del poeta debba esplicarsi sopratutto dove sia urgente la necessità di emancipazione: sul territorio, quindi, casa per casa, campo per campo, fabbrica per fabbrica. Tale funzione sarà multidisciplinare e applicata verso tutti gli ambiti popolari possibili: raduni, feste, attività ricreative, con volantini, pieghevoli, giornali, opuscoli, in modo da mantenere costante la presenza del gruppo nella comunità. Rinunceranno a Einaudi, Feltrinelli, Bompiani, stamperanno faticosamente libri autoprodotti e i loro documenti fondativi saranno ciclostilati e rilegati con punto metallico, evocando autenticamente lo spirito delle Avanguardie.

Guidati da Nat Scammacca, gli affiliati Crescenzio Cane, Gianni Diecidue, Ignazio Apolloni, Antonio Cremona, Santo Calì, Pietro Terminelli, Emanuele Mandarà, Ugo Minichini, Giuseppe Addamo e molti altri saranno ricevuti nell’aprile del ’73 da Lawrence Ferlinghetti nella libreria City Lights a San Francisco, dove verrà loro attribuito un importante tributo culturale: POPULIST MANIFESTO – for poets with love […] they are a fantastica production! Nonché riconosciuto Scammacca come il più rilevante poeta beat italiano.

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